74° anniversario della Dichiarazione Schuman, primo pilastro dell’unità dell’Europa

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di Roberto Marraccini

Perché il 9 maggio è la Festa dell’Europa

Oggi l’Europa, almeno come idea primigenia di costruzione di una unità di intenti tra Stati e popoli diversi, compie 74 anni. La data di riferimento di questo anniversario è da ritrovare – andando a ritroso nel passato – il 9 maggio del 1950. La data celebrativa, “Giorno dell’Europa” o “Festa dell’Europa”, venne decisa nel corso del vertice europeo di Milano (nel 1985). Essa coincide con l’anniversario della famosa e diventata storica, Dichiarazione Schuman, dal nome del Ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, che la espose il 9 maggio del 1950, a Parigi.

L’idea di Unità dell’Europa

La Dichiarazione Schuman è ritenuta il vero e proprio documento fondatore del processo di unificazione europea. In quella dichiarazione, Schuman presentò quelle che erano le sue idee circa una nuova forma di cooperazione politica per il futuro dell’Europa. Obiettivo non nascosto e apertamente dichiarato, tra l’altro molto ambizioso visto il periodo temporale appena successivo al secondo conflitto mondiale, era di procedere alla realizzazione di una istituzione europea che potesse mettere – in comune – la gestione e produzione del carbone e dell’acciaio. Quello fu il primo embrione di quella che divenne poi, successivamente, la Comunità Europea.

L’idea di unità dell’Europa, affascinante e che nella storia ha svariati interpreti, pur essendo presente come idea/teoria fin dal Medioevo, diviene – concretamente – un obiettivo politico comune, solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Viene ritenuta, in quel momento, una idea da concretizzare istituzionalmente e poi legislativamente.

Alla fine di quel conflitto bellico, l’Europa si trovava in una situazione drammatica. Era completamente martoriata dalle distruzioni materiali e psicologiche derivanti dal conflitto e necessitava di risollevarsi.

In quello scenario, l’ordine mondiale venne spartito in due aree di influenza geo-politica: da una parte gli Stati Uniti e dall’altra l’Unione Sovietica con l’ideologia comunista che portava con sé. Gli stati europei, quindi, perdendo la loro posizione dominante regredirono al rango di satelliti delle due superpotenze, ed inseriti all’interno del complesso meccanismo della Guerra Fredda.

Fino dunque al secondo conflitto mondiale, non si era mai parlato e discusso con una convinzione non semplicemente utopistica – tranne rare eccezioni – di costruire una Europa unita ed integrata.

Con la fine delle ostilità, si cercò di portare pace e sicurezza in Europa, e questo era possibile con una collaborazione sul terreno militare tra gli Stati dell’Europa occidentale. Da ciò nasce poi la condizione politica della collaborazione sul piano economico.

I pionieri dell’Europa e l’idea federale

L’ideatore del progetto di unificazione europea – oltre ad alcuni esponenti del Risorgimento italiano come Carlo Cattaneo che invocava gli Stati Uniti d’Europa – fu Altiero Spinelli, che puntò decisamente sul ruolo costituente del Parlamento europeo. Nel suo famoso Manifesto di Ventotene (scritto tra il 1943 e il 1945 nel suo esilio durante il regime fascista) lascia intravedere la possibilità della nascita di un’Europa integrata che, nella sua visione strategica, avrebbe dovuto essere costruita su un’architettura federale. Nasce l’idea del federalismo europeo, del federalismo sovranazionale.

Comunque, la prima pietra per la costruzione di un embrione di Comunità europea fu posta proprio con la Dichiarazione Schuman. Partendo, come detto, dal mettere in comune la produzione e gestione del carbone e dell’acciaio si voleva giungere – con il tempo – alla formazione di un’unione economica tra gli Stati europei.

Successivamente, a seguito della Dichiarazione Schuman, venne firmato a Parigi, il 18 aprile del 1951, il primo dei Trattati comunitari, per l’istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). I paesi aderenti erano: Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo ed Italia.

Il futuro dell’unità europea

Settantaquattro anni dopo l’Europa celebra questo anniversario minacciata da un pericolo diverso, ma la cui drammaticità non mette meno a rischio la sua coesione e il suo futuro. Oggi, occorre interrogarci ed in profondità sul percorso compiuto dall’integrazione europea e dall’unità dell’Europa, partendo proprio dalle basi ideali poste in quel documento. Divisioni, nazionalismi che risorgono, minacce di barriere da elevare che vengono paventate, stanno – purtroppo – minacciando di far tornare indietro la storia dell’integrazione comunitaria. Le emergenze in atto (es. guerra in Ucraina, il ritorno del conflitto in Medio Oriente tra Israele e Hamas ecc.) stanno ancora di più rafforzando e facendo emergere quelle divisioni che vorrebbero interrompere il percorso voluto, sognato e per cui hanno lottato i Padri Fondatori dell’Europa.

Ma interrogandoci capiremo, anche, che la strada percorsa fino ad oggi è quella giusta, pur essendo ancora lunga. Il traguardo finale è, forse, un sogno; ma è con i sogni che si costruisce, ogni giorno, la concretezza della vita. L’Europa deve ripartire, anche nel suo progetto istituzionale; come ci aveva indicato Schuman, verso una vera Unità tra i popoli d’Europa. Verso gli Stati Uniti d’Europa.

In ricordo di Gianfranco Miglio, a ventidue anni dalla scomparsa

10 agosto 2001 – 10 agosto 2023

“Il federalismo è diventato una parola d’ordine, per quanti vagamente si attendono dall’avvenire un sistema di governo opposto a quello vigente: più rispettoso delle scelte dei cittadini, più libero dalle incrostazioni della corruzione, meno autoritario e più soggetti al controllo degli amministrati, più imparziale ed attento alle regole del diritto“ (Gianfranco Miglio)

Esattamente 22 anni fa, il 10 agosto del 2001, se ne andava per sempre Gianfranco Miglio. L’eco delle sue intuizioni e delle sue analisi, rigorose ed affilate, riguardanti la politica e le sue “regolarità”, riaffiora, a distanza di tutto questo tempo, con grande forza, come un necessario ancoraggio e bagaglio di pensiero a cui attingere. Quella politica da lui studiata ed approfondita lungo tutto l’arco della sua esistenza umana. La politica che, secondo le sue analisi, doveva alla fine decidere, guidare, come scrisse: “la politica, cioè la lotta per il controllo dell’uomo da parte dell’uomo, è alle origini di tutte le cose umane”.

Gianfranco Miglio, il Profesùr, fu – senza usare mezzi termini – un personaggio scomodo. Lo fu, molto semplicemente, perché non ebbe il timore di affrontare, scientificamente e sistematicamente (fu un grandissimo scienziato della politica) i temi del potere, del conflitto, delle guerre, dell’organizzazione amministrativa dello Stato (la Pubblica Amministrazione). Temi, ovviamente, che avrebbero potuto creare delle insofferenze e dei mal di pancia alle classi dirigenti di allora ma anche al mondo accademico, come infatti avvenne e da cui venne – nella sostanza – ostracizzato.

La cosa incredibile, su cui ancora costantemente rifletto e che ancora oggi mi rammarica profondamente, è che anche a distanza di ventidue anni dalla sua morte, la sua figura sia ancora ritenuta scomoda. Post mortem, infatti, anche i più feroci despoti della storia vengono, in un certo senso, ripresi, studiati, compresi, riletti con un più ampio respiro intellettuale (è già successo di recente con la figura di Berlusconi). Con il Prof. Miglio, invece, questo non è accaduto e non avviene oggi. Non è accaduto nel decennale della scomparsa (agosto 2011), quando pochi mezzi di informazione ne ricordarono la figura, non è accaduto nel 2018 (l’11 gennaio di quell’anno si celebrò il centenario della sua nascita), non accade e non accadrà nemmeno oggi. Il perché, credo, è chiaro. Parlare di rendite politiche, di parassiti, di diversità socio-economica tra il Nord ed il Sud del Paese, della necessità di riformare alla radice l’organizzazione statuale italiana per arrivare – definitivamente – ad una Unione Italiana (come lui la indicava) nel nome del federalismo, è qualcosa di destabilizzante, di “sovversivo”.

Così come è destabilizzante pensare, come egli fece in moltissime sue analisi, concentrarsi sul concetto di patto, foedus, dello stare insieme. Il contratto-scambio, più volte da lui sottolineato e richiamato, non è nient’altro che il razionale comportamento umano alla ricerca del proprio benessere, all’interno della propria comunità e, soprattutto, insieme a chi condivide i tuoi stessi valori, lo stesso concetto di vita. Da qui, appunto, la sua idea, rivoluzionaria sotto certi aspetti, del diritto – naturale – per ogni comunità territoriale di stare “con chi si vuole e con chi ci vuole”: il diritto di secessione. Che nella definizione di Miglio “è un diritto prepolitico, che esiste, al pari del diritto di resistenza, come un prius rispetto ad ogni comunità politica organizzata”. Un concetto, per Miglio, che dovrebbe essere presente in un qualsiasi ordinamento che si configuri come federale.

Fu scomodo perché, senza usare giri di parole, ipotizzò la trasformazione dell’Italia in un moderno Stato federale. Uno Stato federale che avrebbe dovuto essere costruito su tre Macroregioni (Repubblica del Nord, Repubblica dell’Etruria e Repubblica del Sud – vedi Decalogo di Assago) più le Regioni a Statuto speciale. Un federalismo, il suo, molto diverso da quello “classico”. Lui, sostanzialmente, considerava il federalismo non più come uno strumento atto ad unire, ma quale strategia per “tutelare e gestire le diversità” (ex uno plures, dallo Stato unitario centralizzato, cioè da un’unica entità sovrana, lo Stato nazionale, si giunge – dopo un processo di federalizzazione – ad un sistema costituito da più sovranità distinte tra loro ed unite da un patto federativo, il principio del federalismo). Proprio ciò di cui avrebbe bisogno l’Italia, Paese ultracentralizzato, altamente burocratizzato, completamente incentrato sull’idea che ogni bisogno che scaturisce dalla società debba essere – automaticamente – risolto e preso in carico dallo Stato. Idea divenuta ancora più forte dopo la pandemia di COVID-19.

Ho riletto, proprio in questi giorni, un articolo di due anni fa, di ricordo del Prof. Miglio scritto da Marcello Veneziani, giornalista, scrittore e grande intellettuale di destra con cui Miglio intrattenne un’amicizia sincera e un proficuo scambio di idee, proprio sui temi del federalismo, della secessione, del nazionalismo (vedi il volume “Padania, Italia. Lo Stato nazionale è soltanto in crisi o non è mai esistito?”, pubblicato nel 1997). Ebbene, in quell’articolo, Miglio viene definito come un sovranista ante litteram, una sorta di precursore dei Salvini e Orban contemporanei. Ovviamente non condivido nella maniera più assoluta questo accostamento, in quanto quello che fu l’ideologo del Carroccio non avrebbe mai accettato la trasformazione della Lega in una forza politica nazionalista (quindi statalista) e – ahimè – votata all’omologazione culturale delle diversità regionali e, pertanto, antifederalista. Così come credo sia fare un grande torto a Miglio stesso accostarlo al concetto di sovranismo, ovvero all’idea di rafforzare sempre di più le prerogative dello Stato (dal termine sovranità), mentre il Professore lariano fu – sempre e comunque – visceralmente federalista, fino ad avvicinarsi, negli ultimi anni della sua vita, a posizioni libertarie.

Purtroppo il cammino da compiere, meglio, da riprendere completamente, è lungo. Lunga la strada verso quella costruzione federale che il Professore ci aveva indicato.

Ciao Profesùr. Come faccio ogni anno il 10 di agosto la ricordo e mi auguro che, da lassù, possa vegliare su noi federalisti.

Roberto Marraccini



Buon compleanno Svizzera, esempio di libertà e pluralismo

732 anni di federalismo concreto e realizzato

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Oggi la Svizzera compie 732 anni di vita. Il 1° di agosto, infatti, rappresenta per la Confederazione Elvetica (questa è l’esatta dicitura scritta nella Costituzione), la propria Festa nazionale o – come si sente spesso ripetere con enfasi e passione – il Natale della Patria. In sostanza, quello che per l’Italia è il 2 giugno.

“Al principio del mese d’agosto” del 1291 (così recita il testo del Patto eterno confederale), delegati in rappresentanza di tre comunità territoriali a sé stanti – Uri, Schwyz e Unterwalden – decisero di allearsi e proteggersi l’un l’altro da qualunque aggressione esterna fosse giunta da ipotetici ed eventuali nemici. Nello specifico c’è scritto: “Sia noto dunque a tutti, che gli uomini della valle di Uri, la comunità della valle di Schwyz e quella degli uomini in Unterwalden, considerando la malizia dei tempi ed allo scopo di meglio difendere e integralmente conservare sé ed i loro beni, hanno fatto leale promessa di prestarsi reciproco aiuto, consiglio e appoggio, a salvaguardia così delle persone come delle cose, dentro le loro valli e fuori, con tutti i mezzi in loro potere, con tutte le loro forze, contro tutti coloro e contro ciascuno di coloro che ad essi o ad uno d’essi facesse violenza, molestia od ingiuria con il proposito di nuocere alle persone od alle cose”.

La data, per alcuni versi leggendaria, è il 1° agosto del 1291. In quel giorno, sacro per ogni svizzero e per ogni sincero federalista, ha origine l’embrione del federalismo svizzero. I tre Cantoni originari di Uri, Schwyz e Unterwalden si unirono contro il pericolo esterno rappresentato dagli Asburgo i quali stavano minacciando e intaccando il loro autogoverno, la loro libertà. A questo patto originario, si sono poi aggiunte altre entità territoriali (Cantoni), così che, oggi, la Svizzera è formata da 26 Stati (23 Cantoni e 3 semicantoni).

Svizzera: esempio di vero federalismo

La Svizzera è il più limpido esempio, al mondo, di cosa significhi vivere in un sistema realmente federale e di democrazia partecipativa. È un Paese multiconfessionale (convivono cattolici e protestanti) e, secondo quanto scritto nella propria Costituzione (articolo 4), si prevede la coesistenza di quattro lingue nazionali, ufficialmente riconosciute (tedesco, francese, italiano e romancio). È, poi, un Paese molto variegato al suo interno, per vocazione economica e per cultura. Ma tutto ciò non ha impedito ai singoli Cantoni di mettere da parte alcuni pezzi della loro sovranità per unire le forze in funzione di un comune destino: la propria libertà e il reciproco aiuto in caso di attacco esterno.

Ciò che accomuna tutti gli svizzeri, da 732 anni, è il profondo attaccamento alle proprie istituzioni: è il legame federale che nasce, appunto, dal “mitico” Patto perpetuo del 1291 (Patto del Grütli), festeggiato ogni anno con profondo orgoglio e sincera fierezza. Con questo spirito di unità, di attaccamento ai propri valori, la Svizzera è riuscita ad unire popoli diversi che si sentono fieri proprio della loro comune appartenenza (pur nella loro evidente diversità): essere un’unica cosa: il popolo svizzero. Le singole diversità, infatti, non rappresentano un ostacolo alla creazione di un legame forte tra i cittadini dei vari Cantoni ma, al contrario, è proprio nel sentirsi profondamente uniti da determinati valori di fondo che si va a creare e a rafforzare sempre di più quello “spirito federale elvetico” che è unico in tutto il mondo.

La Svizzera è unica perché incarna appieno l’essenza più limpida e più pura del federalismo, poggiando le sue architravi istituzionali sull’idea che un vero sistema federale debba prevedere una “pluralità di sovranità” (come sosteneva Gianfranco Miglio). Il federalismo, infatti, presuppone una suddivisione del potere tra un governo centrale e delle entità territoriali, in modo che questi due livelli di governo abbiano piena competenza su determinatti affari (materie). La definizione più semplice e chiara per sintetizzare questo concetto ci proviene da William Riker (un politologo americano scomparso nel 1993) che scrisse:

“Il federalismo è un’organizzazione politica nella quale le attività di governo sono ripartite tra i governi regionali e governo centrale in modo tale che a ogni tipo di governo sono attribuiti dei settori nei quali ha potere di decisione finale”.

È in sostanza quello che si è concretizzato in Svizzera. La pietra miliare del federalismo svizzero è, infatti, scolpita nell’articolo 3 della Costituzione che recita: “Federalismo – I Cantoni sono sovrani per quanto la loro sovranità non sia limitata dalla Costituzione federale ed esercitano tutti i diritti non delegati alla Confederazione”.

La cultura federalista come base di vita di ogni cittadino elvetico  

Vi è poi da considerare la cultura federalista che è insita – perché trasmessa di generazione in generazione e a scuola – in ogni cittadino svizzero. In Svizzera ogni cittadino è già federalista dalla nascita, perché l’idea, i princìpi federalisti permeano tutta la vita quotidiana di quel Paese. La Svizzera è l’esempio più chiaro che per realizzare una vera riforma federalista dello Stato occorre, prima di tutto, che tra i cittadini sia presente e sia radicata una cultura autenticamente federalista. Non per niente, infatti, il senso civico nei cittadini svizzeri è molto più elevato di quello presente in altri Paesi, anche federali.

La Svizzera: un modello per l’Ue del futuro?

È questo l’insegnamento che l’Unione europea dovrebbe trarre dalla Svizzera. Anche l’Ue, quando nacque come idea concreta dopo la Seconda Guerra Mondiale, aveva come finalità unire i popoli d’Europa. Oggi, però, di quel sogno e di quell’ideale resta ben poco. Restano i problemi economici, del terrorismo islamico, dei rapporti tra i singoli Stati membri e di cosa fare sul piano internazionale, che impediscono di compiere quel passo decisivo verso l’unità politica del Continente. Per questo occorre osservare, con lucida attenzione, ciò che ci pone davanti ai nostri occhi la Svizzera. Anche perché la Svizzera è – forse – il Paese che più di ogni altro incarna i veri princìpi cardine che hanno fatto scaturire l’idea di unità europea: il federalismo, la valorizzazione della democrazia diretta quale strumento per il funzionamento delle istituzioni al servizio dei cittadini, il rapporto paritario tra diversità in un sistema altamente pluralista (differenze linguistiche, religiose, culturali, ecc.).

Nella sostanza, la Svizzera – pur non appartenendo all’Ue e, molto probabilmente, non avendo nemmeno l’intenzione di entrarci in futuro – potrebbe davvero rappresentare il modello ideale a cui ispirarsi, per riformare e ricostruire l’Unione europea in senso più democratico. La Svizzera ha – da sette secoli – realizzato concretamente e con grande volontà il motto dell’Ue: unità nella diversità. Un caposaldo che l’Ue deve concretizzare, per essere, finalmente, quell’attore globale che agisce nel contesto mondiale con la piena consapevolezza di poter essere protagonista nei nuovi equilibri geopolitici.

E allora, buon compleanno Svizzera, esempio di democrazia e libertà.

Roberto Marraccini 

La conversione, finta, di Salvini. Dal NO Euro all’europeismo di facciata

Convertito sulla via di Damasco, proprio come fece San Paolo. La conversione di cui stiamo parlando, però non è né mistica né religiosa, ma semplicemente di facciata e soprattutto sfacciata. Questo è ciò che abbiamo visto, in questi giorni, fare a Matteo Salvini. Da antieuropeista viscerale, a strenuo difensore del modello comunitario, per arrivare a spendere i 209 miliardi del Recovery Fund.

Perché questo è Matteo Salvini, il camaleonte della politica italiana. L’uomo capace di passare dal voler chiudere tutto (fine febbraio) alla necessità, per salvare il Paese, di riaprire tutto, solo dieci giorni dopo le prime affermazioni. È lo stesso personaggio che è riuscito a passare dal gridare al complotto giudicaico-massonico messo in atto dall’Europa (dai tecnocrati europei) a dichiararsi in favore di Draghi, senza alcuna pregiudiziale. È sempre lo stesso che è passato dall’urlare a squarciagola “secessione” e dal volere cancellare dal sistema istituzionale il più forte retaggio del centralismo statale – i prefetti – salvo poi, divenuto Ministro dell’Interno, fare di tutto per attribuire più poteri e competenze a questi organi.

Il cazzaro verde o, a seconda delle preferenze, il traditore del Nord – come qualcuno lo ha definito – ha compreso, dopo un rincorrere gli avversari senza toccare palla dall’agosto 2019 (sciagurata ma davvero benedetta per le sorti del Paese la decisione di abbandonare il Governo Conte I, pensate cosa sarebbe stato il 2020 con il capitano al Ministero dell’Interno), che l’unico modo per tornare nella stanza dei bottoni (Giorgetti docet) è accettare la scelta dell’europeismo e accodarsi fedelmente ai diktat di Draghi. E quindi di Merkel e Macron.

Certo, è davvero triste vedere che ogni volta che il Paese deve affrontare delle crisi di sistema – anche se questa è una crisi che impatterà come mai prima sulle prossime generazioni – ci si debba sempre mettere nelle mani di un tecnico. Anche in questo vediamo, in maniera chiara e limpida, come la politica esca sconfitta nel confronto con la competenza, la preparazione, il merito. È la politica che abdica, che lascia spazio ai tecnici. Ogni volta che occorre intervenire seriamente per salvare il Paese la politica si fa da parte.

I tecnici, i competenti. Gli unici che, forse, in questo momento, straordinario, hanno chiara la strada da seguire: una strada che non è e non sarà mai quella del populismo e della propaganda.

Roberto Marraccini

4 MAGGIO 1949, A SUPERGA SCOMPARE IL “GRANDE TORINO”: UNA LEGGENDA

di Roberto Marraccini

Erano le 17.31 del 4 maggio 1949 (71 anni fa) quando l’aereo, con a bordo la squadra del Grande Torino, precipitò sulla collina di Superga, sopra Torino. L’aereo si schiantò – distruggendo le vite di tutti i passeggeri – contro il muraglione della Basilica di Superga. 31 furono le vittime. Stava riportando a casa i giocatori del Torino da Lisbona, dove la mitica squadra aveva giocato una partita amichevole contro il Benfica.

Il Grande Torino, di cui quel giorno si interruppe la storia calcistica e terrena, fu – molto probabilmente – la squadra più forte di tutti i tempi. In quel periodo storico – gli anni ’40 del secolo scorso – fu pluricampione d’Italia e i suoi giocatori colonna portante della nazionale italiana. Era quello un momento magico per quella squadra di campioni che arrivava da ben cinque scudetti di fila. Solo per riportare un esempio, la stagione 1947-48 (quella dei record) vide il Torino trionfare, con uno stile di gioco diverso da tutte le altre squadre e che fece scuola, con 16 punti di distacco dai secondi: Juventus, Triestina e Milan.

In quel pomeriggio di inizio maggio, un po’ fuori dagli schemi rispetto al periodo, una nebbia alquanto fitta avvolgeva Torino. L’aereo, con a bordo 18 giocatori, due tecnici, due dirigenti, un massaggiatore, l’organizzatore della trasferta, tre giornalisti e quattro membri dell’equipaggio, sta per atterrare all’aeroporto di Torino-Caselle. I tre giornalisti che morirono, al seguito della squadra, erano Renato Casalbore (fondatore di Tuttosport), Luigi Cavallero (de La Stampa) e Renato Tosatti (della Gazzetta del Popolo e padre di quello che divenne, poi, un grande giornalista sportivo, Giorgio Tosatti). Di quella comitiva avrebbe dovuto far parte anche Nicolò Carosio, il padre della telecronaca sportiva in Italia, ma che dovette rinunciare per un importante impegno familiare: la cresima del figlio.

Un messaggio, dalla torre di controllo, delle ore 16.48 (l’ultimo pervenuto) segnalava una visibilità pari a zero. Di lì a poco, improvvisamente, lo schianto e la sciagura. Il calcio italiano perdeva il suo più grande patrimonio: il Grande Torino.

La scena è tragica. Durante i primi soccorsi giunti poco dopo, lo spettacolo è impressionante: pezzi dell’aeromobile sparsi ovunque, vittime non identificabili. Per questa incombenza (per il loro riconoscimento) verrà chiamato Vittorio Pozzo, l’allora Commissario Tecnico della nazionale italiana.

La formazione di quella mitica squadra era – per molti lo è ancora – un ritornello da conoscere a memoria: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar (Martelli), Castigliano, Rigamonti, Menti, Loik, Gabetto, V. Mazzola, Ossola.

Voglio ricordare quella tragedia e quella che fu – a detta di molti – la squadra di calcio più grande di tutti i tempi, con un passaggio scritto, qualche giorno dopo, dal grande giornalista Indro Montanelli, in un suo commuovente articolo dalle pagine del Corriere della Sera: “Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta”.

1° MAGGIO 1994, A IMOLA SE NE ANDAVA PER SEMPRE AYRTON SENNA: LA LEGGENDA

di Roberto Marraccini

Il 1° maggio del 1994, una domenica assolata di metà primavera, uno dei piloti di automobilismo più talentuosi, se non – forse – quello più grande di tutti i tempi, ci lasciava: Ayrton Senna.

Ricordare la sua figura, il suo grande carisma e, soprattutto, la sua straordinaria umanità in un breve articolo è difficile e, forse, sminuente. Ma con queste brevi note cercherò di trasmettere il suo ricordo e le emozioni che chiunque – anche i non appassionati di automobilismo – provavano nel guardarlo in pista.

Fu leggendario, inarrivabile, per talento, coraggio; fu quasi divino per come riusciva a spingere la propria macchina oltre i limiti consentiti dalle leggi della velocità.

Ayrton Senna Da Silva, doppio cognome che ne fanno intuire l’origine italiana, nasce il 21 marzo del 1960 a San Paolo del Brasile. La sua è una famiglia agiata, benestante, composta dal padre, Milton Da Silva, la madre, Neide Senna, brasiliana di origine italiana, un fratello e una sorella. Il legame che Ayrton ha con la sua famiglia, la madre in particolare, è fortissimo e sarà una costante – anche di rifugio e ripresa fisica – in tutta la sua esistenza. Lo stesso pilota ricorderà, infatti, in varie circostanze l’enorme importanza della tranquillità, anche economica, nonché dell’immenso affetto ricevuto per la sua crescita e la sua maturazione, prima che sportiva umana. Credente e profondamente devoto, la sua fede gli derivava – in modo particolare – dall’educazione che gli impartì la madre. Ovunque andasse, quindi in ogni suo viaggio nei più disparati paesi del mondo teatri delle gare di Formula 1, aveva sempre con sé una copia della Bibbia e spesso ne leggeva dei passi.

Iniziò da piccolo a gareggiare con i kart. Il suo talento era cristallino. Era un predestinato, come lasciò intuire – di lui – Enzo Ferrari nel 1984, dopo averlo visto all’opera in televisione nel Gran Premio di Montecarlo, sotto la pioggia: “La stella nascente è senza dubbio Ayrton Senna Da Silva. Brasiliano, giovane, audace esibizionista ‘ognitempo’. Al coraggio unisce un talento tecnico che sta affinando e che lo porterà lontano”. Parole profetiche.

Quel 1° maggio di 26 anni fa, come ogni domenica gli italiani erano incollati alle radioline ad ascoltare la diretta delle partite di calcio e alla televisione a seguire, se si correva in quel fine settimana, il Gran Premio di Formula 1. Quel fine settimana il circuito mondiale fece tappa ad Imola, Gran Premio di San Marino. Senna partiva dalla pole position, ma a caratterizzare quel fine settimana di prove e gara sarà, purtroppo, ben altro. Il giorno prima, nel corso delle qualifiche, accadde l’incidente mortale di Roland Ratzenberger (pilota austriaco della scuderia Simtek) che segnò profondamente lo stato d’animo di Senna. Corse, infatti, il Gran Premio, la domenica, con la bandiera austriaca nella sua vettura, con l’intenzione di sventolarla nel caso avesse trionfato.

Tragico fu invece il destino. Nel corso del suo settimo giro, la vettura del pilota brasiliano – alla curva del Tamburello – uscì di pista ad una velocità spaventosa, per cause dovute al cedimento dello sterzo. Trasportato in condizioni disperate all’Ospedale Maggiore di Bologna, morì alle 18.40. Aveva 34 anni e una vita ancora lunga davanti.

Pochi mesi dopo, negli Stati Uniti, la nazionale brasiliana di calcio batteva nella finale mondiale – a Pasadena – l’Italia di Arrigo Sacchi. La vittoria venne dedicata al pilota della Williams, con queste parole scritte su un grande striscione «Senna… aceleramos juntos, o tetra é nosso». («Senna…acceleriamo insieme, il titolo è nostro»). Una dedica che fece commuovere un intero paese, il Brasile e il mondo intero. Per colui che fu, che è, l’immortale, l’inarrivabile, l’unico: Ayrton Senna.

Uno dei ricordi più belli e commuoventi che, in questi anni, sono stati fatti sulla sua figura, leggendaria, è – credo – quello di Lucio Dalla, nella sua canzone Ayrton. Queste le struggenti parole di quella canzone:  “Ho capito che la gente amava me potevo fare qualcosa. Dovevo cambiare qualche cosa. E ho deciso una notte di maggio in una terra di sognatori ho deciso che toccava forse a me. E ho capito che Dio mi aveva dato il potere di far tornare indietro il mondo rimbalzando nella curva insieme a me. Mi ha detto “chiudi gli occhi e riposa”. E io ho chiuso gli occhi.”.

Perché, come amavi dire: “ Non esiste curva dove non si possa sorpassare”. Ciao Ayrton.

 

 

 

 

 

 

 

 

NILDE IOTTI A CENTO ANNI DALLA NASCITA, PRIMA DONNA PRESIDENTE DELLA CAMERA

Il 10 aprile del 1920 – 100 anni fa oggi – nasceva, a Reggio nell’Emilia, Nilde Iotti, all’anagrafe Leonilde Jotti.

Figlia di un ferroviere, visse la sua adolescenza in un contesto caratterizzato da grandi ristrettezze economiche. Perse il padre a 14 anni. Grazie alle borse di studio poté proseguire gli studi, fino a frequentare, poi, l’Università Cattolica di Milano e  laureandosi in Lettere. Qui, tra i suoi professori, vi fu anche Amintore Fanfani.

Fu una delle figure più importanti e di spicco della politica italiana nella Prima Repubblica. Donna straordinaria, portò avanti, con una caparbietà e sensibilità fuori dal comune, le sue idee e battaglie per la parità di genere. Fece questo in un’Italia uscita dalla Seconda Guerra Mondiale completamente distrutta – dal punto di vista materiale e morale –  ed ancora profondamente legata ai valori della società patriarcale, fondata sulla predominanza dell’uomo sulla donna.

Dopo l’8 settembre 1943, giorno dell’Armistizio di Cassibile, in conseguenza della situazione in cui si trovava l’Italia, cominciò a maturare un forte interesse per la politica. Avvicinatasi così, come convinta antifascista, al PCI (Partito Comunista Italiano), partecipò direttamente alla Resistenza, agendo in gruppi di sostegno alle donne e contribuendo – fattivamente – a combattere il nazifascismo in Italia.

Al termine della Guerra venne eletta membro dell’Assemblea Costituente (nel 1946) e partecipò così alla Commissione dei 75, ovvero il gruppo di deputati che lavorò alla stesura della nostra Costituzione repubblicana.

Nel 1948 venne eletta nuovamente alla Camera dei Deputati e qui rimase (come deputata) – continuativamente – fino al 1999 (anno della sua morte). Nel 1979 venne eletta Presidente della Camera, fatto storico, essendo la prima donna, nella storia del nostro Paese, a ricoprire questa carica. Le sua parole, pronunciate per il suo discorso di insediamento alla Presidenza della Camera, sono cariche di passione e di vicinanza al mondo femminile e a tutte le donne del Paese: “Ma in particolare comprenderete la mia emozione per essere la prima donna nella storia d’Italia a ricoprire una delle più alte cariche dello Stato. Io stessa – non ve lo nascondo – vivo quasi in modo emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo, che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si sono aperte la strada verso la loro emancipazione.” (Discorso di insediamento alla Presidenza della Camera dei Deputati, 20 giugno 1979).

Convintamente e profondamente europeista, sostenne – sempre – la necessità di creare una unità politica dell’Europa, per contare di più e poter intervenire con più incisività negli equilibri geo-politici del mondo, come nel vicino Medio Oriente: “Pensiamo al ruolo che un’Europa unita potrebbe svolgere per giungere finalmente alla soluzione della questione palestinese, del diritto di quel popolo ad avere una terra ed una patria, e di tutti i popoli dell’area, in primo luogo quello di Israele, a vivere nella pace e nella sicurezza.” (Discorso di apertura della Conferenza dei parlamentari della Comunità europea (Roma, 27-30 novembre 1990).

Anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, questa mattina ha voluto ricordarla, con parole cariche di stima e riconoscenza per il suo impegno civile: “Il suo impegno e la sua testimonianza rimangono patrimonio della memoria della Repubblica”.

Legata sentimentalmente a Palmiro Togliatti, fu la sua compagna fino alla morte del leader comunista, avvenuta nel 1964.

Credo sia davvero importante, oggi, ricordarne la figura. Proprio in questo momento difficile per l’emergenza da COVID-19, sarebbe – certamente –  in prima linea a dare manforte e supporto a tutti coloro che ogni giorno stanno rischiando la loro vita per tutti noi. Uomini e donne che non smetteremo, mai, di ringraziare abbastanza. Come farebbe lei, esempio formidabile di tenacia e coraggio: l’esempio di un donna veramente straordinaria.

Roberto Marraccini

10 FEBBRAIO, GIORNO DEL RICORDO

Le foibe, una tragedia dimenticata. Doveroso il suo ricordo

Foibe 10 febbraio

Il 10 di febbraio è la data in cui si celebra il cosiddetto “Giorno del Ricordo”. Dopo anni di superficialità e irrazionale distacco se non – addirittura – in molti casi di vere e proprie negazioni di ciò che accadde in quel periodo storico in Istria e nel confine nord-orientale dell’Italia, il Parlamento italiano ha approvato la Legge n. 92 del 30 marzo 2004: “Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”.  Il primo comma del primo articolo della Legge in questione esprime, in maniera straordinariamente semplice, quanto successe e ciò che, quindi, nella giornata del 10 febbraio – ogni anno – doverosamente dobbiamo ricordare: “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

La vicenda delle foibe rappresenta una delle più grandi tragedie umane del Novecento, che colpì una popolazione indebolita ed affranta dal passaggio della propria terra ad una comunità diversa da quella di origine, in base al Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947. Trecentocinquantamila esuli italiani abbandonarono il territorio di Pola, Fiume e Zara, nonché di una parte delle province di Trieste e Gorizia, mentre altre migliaia, rimasti nelle loro terre di origine, hanno subito le persecuzioni anti-italiane del regime di Tito e sono stati torturati ed uccisi nelle foibe.

Quella delle foibe fu una serie di immani tragedie e di orrori; fu una tragedia collettiva, quella dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati, quella dunque di un intero popolo. Questo perché quella delle foibe fu, soprattutto, una pulizia etnica contro chiunque fosse italiano. Non importava l’orientamento politico, l’essere o essere stato fascista o connivente con il regime mussoliniano; l’unico metro di giudizio che comportava la condanna a morte era essere italiani.

La data stabilita, il 10 febbraio, è una data simbolo, perché vuole ricordare il 10 febbraio 1947, giorno della firma del Trattato di Parigi tra l’Italia e le potenze alleate. Da quel giorno l’Italia dovette cedere, tra l’altro, all’allora Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, quasi tutta l’Istria e le città di Fiume e Zara.

 

Il dovere di ricordare

In tutto il Paese, in quel giorno o nei giorni a ridosso di quella data, le istituzioni pubbliche – Enti Locali in primo luogo – intervengono direttamente con proprie iniziative per ricordare cosa è accaduto; per far sì che ciò non abbia più modo di verificarsi.

L’approvazione della Legge in questione ha portato – finalmente dopo anni di omissioni – distensione nel dibattito politico, fino a quel momento alquanto aspro e vivace in merito a questo tema. Per meglio capire il clima di negazione che, fino ad allora, si respirava, cito quelle che furono le parole dell’On. Piero Fassino, all’atto dell’approvazione finale della Legge in Parlamento: “È una pagina che, a lungo, è stata rimossa nella storia del Paese e sulla quale è stato steso un velo di oblìo, di dimenticanza. Credo sia giunto il tempo di dichiarare che quella pagina di storia appartiene alla nostra storia, alla storia di tutti noi, alla storia degli italiani. Dobbiamo sentire quella tragedia come una nostra tragedia” (Piero Fassino, Camera dei Deputati, Seduta n. 422 dell’11/2/2004, dichiarazione di voto finale sull’approvazione della proposta di Legge A.C. n. 1874)”.

Oggi, invece, anche questo genocidio sanguinoso vive nelle pagine di storia. E si alimenterà, nei prossimi anni, sempre di più. Perché è solo con la conoscenza vera dei fatti che è possibile capire cosa è stato, per non ripetere gli errori compiuti. Il fatto positivo è che, da un certo numero di anni, si sono intensificate le ricerche e le riflessioni degli storici sulle vicende cui è dedicato il “Giorno del Ricordo”. E dovremo, certamente, farne tesoro per diffondere una memoria che ha già rischiato di essere cancellata, per trasmetterla alle generazioni più giovani.

È importante capire quanto avvenuto, farlo con mente lucida. Ma per fare questo occorre studiare, leggere, leggere ancora, informarsi. Ricordo, in conclusione, le parole pronunciate dal Presidente emerito della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, il quale, il 10 febbraio del 2007, dichiarò: “Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe, ma egualmente l’odissea dell’esodo, e del dolore e della fatica che costò a fiumani, istriani e dalmati ricostruirsi una vita nell’Italia tornata libera e indipendente ma umiliata e mutilata nella sua regione orientale. E va ricordata la “congiura del silenzio”, “la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblìo”.

Roberto Marraccini 

 

 

11 gennaio 1918 – 11 gennaio 2018: centenario della nascita di Gianfranco Miglio

Gianfranco Miglio, il grande federalista

“Il sogno di un’Italia federale rimane un sogno: ma è la sola possibilità disponibile”

(Gianfranco Miglio)

 

Si celebra oggi – 11 gennaio 2018 – il centesimo anniversario della nascita di Gianfranco Miglio.

Ripercorrere brevemente il pensiero e i tratti della sua figura è cosa, da un lato difficoltosa (è difficile accostarsi pienamente alla comprensione di quello che fu un pensatore geniale), dall’altro lato è anche in un certo modo ingiusto perché – per necessità di sintesi – si dovrebbero tralasciare aspetti e fatti che sono comunque importanti e che hanno fatto parte integrante della sua vita.

Ad ogni modo, nel centenario della sua nascita, credo convintamente che sia doveroso sottolineare come le sue analisi e le sue intuizioni scientifiche siano, tutt’ora, di estrema e profonda attualità, visto che – volenti o nolenti – le idee federaliste e di autogoverno, nonostante il centralismo e lo statalismo stiano riprendendo vigore (anche per via della crisi economica globale), sono ancora lì, davanti a noi, a guidare le vite e le menti degli uomini liberi.

 

Il neo-federalismo di Miglio

Gianfranco Miglio fu, senza giri di parole, il più grande interprete del federalismo e uno dei più geniali scienziati della politica (definizione che preferiva a quella di politologo) che l’Italia abbia mai avuto.

Fin dagli anni ’40 del secolo scorso divenne federalista e lo fu, lungo il corso di tutta la sua vita, fin nel midollo. Il percorso, di pensiero ed umano, che lo portò alla sua scelta federalista non è casuale o – almeno – la sua profonda ammirazione per il federalismo e per i sistemi istituzionali federali non è una folgorazione avvenuta di improvviso, come spesso qualche giornalista ha voluto far intendere. La sua apertura e forte convinzione verso i princìpi del federalismo è frutto di un’esperienza iniziata sul finire del Secondo conflitto Mondiale (nel 1943 per l’esattezza) all’interno di un gruppo di giovani federalisti comaschi raccolti intorno al giornale del Cisalpino, oltre che – ma questo è evidente – ad uno studio sistematico ed incessante delle teoria federale.

Un federalismo che, per Miglio, dovrebbe configurarsi in maniera opposta rispetto al federalismo classico, che era utilizzato per unire delle entità preesistenti (e pluribus unum: da più soggetti ad un unico soggetto, proprio come sono nati la Svizzera e gli Stati Uniti d’America). Il nuovo federalismo di Miglio – neofederalismo – ha, invece, la funzione storica di “tutelare e gestire le diversità”, favorendo quindi “il passaggio dall’unità alla pluralità: ex uno plures ”: da un’unica entità sovrana, lo Stato nazionale, si giunge – dopo un processo di federalizzazione – ad un sistema costituito da più sovranità distinte tra loro ed unite da un patto federativo (il principio cardine del federalismo).

La sua proposta federale era estremamente radicale, di rottura, basti pensare al Decalogo di Assago nel quale delineò un’Italia federale suddivisa in tre macroaree omogenee (Repubbliche): Nord, Centro e Sud, più le cinque Regioni a Statuto speciale attuali.

Per queste ragioni si avvicinò alla Lega Nord – di cui fu Senatore (indipendente) – perché essa, ai suoi occhi, rappresentava l’unica forza politica autenticamente orientata a realizzare una riforma dello Stato in senso federale. A tale proposito disse: “Non si può essere leghisti se non si è federalisti nelle istituzioni e liberali in economia”. Certamente, stiamo parlando di una Lega molto diversa da quella salviniana di oggi, tutta protesa verso un nazionalismo patriottardo di matrice lepenista, che nulla ha a che vedere con il federalismo e i princìpi dell’autogoverno dei territori.

Il suo modello federale, che vedeva concretamente realizzato solo in Svizzera, non ammetteva mezze misure, come per esempio le materie legislative concorrenti (previste dal nuovo Titolo V della Costituzione italiana).

E come strutturava, allora, Miglio il suo sistema federale? Quali dovevano essere la sue caratteristiche imprescindibili? Andiamo con ordine:

1) innanzitutto due centri di poteri equivalenti dotati ognuno di una propria sovranità (Cantoni e Federazione);

2) le entità federate (parlava di Cantoni) devono avere dimensioni tali da permettere loro di svolgere l’attività a loro preposta riuscendo inoltre a resistere al potere dell’autorità centrale;

3) tutte le regole che disciplinano il funzionamento del sistema generale sono ispirate al principio del contratto (negoziato) e della maggioranza qualificata;

4) nella Costituzione si devono prevedere strumenti che consentano sempre una rapida e certa decisione degli affari di Governo;

5) una struttura fiscale – fortemente autonoma per i vari soggetti istituzionali interessati – che poggi su due livelli: municipale e cantonale;

6) da ultimo, la possibilità – per le entità federate – di secedere (diritto pre-politico).

Sull’ultimo punto, era solito specificare: “Io sostengo che una Costituzione in cui il diritto di secessione sia implicitamente o esplicitamente escluso non sarà mai una Costituzione federale, ma una Costituzione unitaria”. Anche perché, ripeteva spesso: “Una Costituzione o è federale o non è”.

È allora evidente che se non si ha una pluralità di sovranità, non è possibile parlare apertamente di un sistema federale concreto e realizzato. Su questo punto Miglio era inflessibile. Inoltre, e anche qui stiamo ragionando di una elementare regola per qualsiasi sistema politico-istituzionale che si voglia configurare come federale, occorre costruire una reale autonomia fiscale per gli enti che compongono la Federazione (federalismo fiscale, autonomia fiscale piena).

Nella sua sostanza il federalismo, per Miglio, si configurava come la risposta – politica e quindi istituzionale – alla crisi dello Stato nazionale. Proprio per questo credeva, profondamente, che incarnando il federalismo la massima espressione della libertà per l’uomo, da realizzarsi attraverso l’autogoverno e la piena sovranità delle entità territoriali federate, dovesse poggiare sul diritto pre-politico per eccellenza: il diritto a secedere, a stare con chi si vuole. “Il diritto di secessione – specificava Miglio – è il diritto al distacco, che viene fatto valere come suprema garanzia della propria indipendenza”.

Ecco perché, oggi, sarebbe schierato senza alcun tentennamento (non come la Lega Nord odierna), a fianco della Catalogna e dei catalani, per il loro diritto all’autodeterminazione e alla libertà.

 

Il rigore intellettuale: una vita dedicata allo studio della Politica

Fu un intellettuale infaticabile, rigoroso, sempre attento a capire – in tutte le sue sfaccettature – il complesso mondo della Politica, con i propri rituali e schemi mentali, i propri crismi, le proprie regolarità.

Il suo pensiero – fortemente legato alla realtà concreta dei fatti – era improntato al cosiddetto realismo politico. Maestro di questa corrente di pensiero (se così vogliamo definirla) fu Carl Schmitt, grande giurista tedesco. Un pensatore che venne fatto scoprire all’interno del mondo accademico e scientifico italiano proprio da Miglio, il quale decise di curarne la traduzione in italiano, grazie alla casa editrice Giuffrè. Lo studio e l’analisi di questo pensatore rappresentarono – senza alcun dubbio – un’importante crescita di conoscenza e di concezioni sul diritto e la Politica per Miglio che lo portarono a divenire, né più né meno, proprio parafrasando quanto disse su di lui lo stesso Schmitt, “l’uomo più colto d’Europa”.

La sua era una spigolosa propensione alla sovversione intellettuale.  Una sovversione – intesa nel senso buono del termine, nel suo significato di intrapresa di schemi intellettuali innovativi – intesa come metodo, mai come un fine.

Il rigore dell’argomentazione e la dottrina sono sempre stati in Miglio affilati strumenti di battaglia culturale e di conoscenza che servono per decidere.

Quelle che molto spesso sono state definite dai giornalisti e dai mezzi di comunicazione di massa come “sparate” e “provocazioni” del Profesùr altro non erano che espressione diretta di quello che egli era giunto a pensare dopo anni di approfondimenti e di dettagliate analisi supportate da innumerevoli prove documentali, prove scientifiche.

Come ha scritto il politologo Panebianco i grandi realisti – come era Miglio – sono sempre personaggi scomodi, perché ricordano incessantemente quello che dà fastidio sentirsi dire. Perché hanno il coraggio – come Miglio ebbe sempre nel corso della sua vita – di dire quello che pensano, anche se controcorrente e anche se la cosa può dare fastidio a qualcuno o può andare a toccare dei meccanismi ormai oleati e costanti. Da qui, allora, è facile comprendere perché molti vorrebbero mantenere la sua figura e il suo pensiero nell’oblìo più totale, di modo che presto – anche i suoi assertori – se ne dimentichino. Sarebbe semplice, se ci pensiamo. È proprio per questo che oggi, nel giorno che celebra il centenario della sua nascita, dovremmo – tutti – interrogarci e comprendere in profondità la straordinaria verità scritta nel suo pensiero.

 

Miglio, un “uomo libero”

Il silenzio sui suoi lavori, scritti, lezioni universitarie ecc. è andato avanti per molto tempo e continua purtroppo ancora. Un silenzio che oserei definire – senza retorica – assordante ed ingiusto.

I suoi scritti, in definitiva, sono – per la lucidità di analisi e la forte aderenza alla realtà dei fatti politici ed istituzionali – di una attualità che potremmo semplicemente definire straordinaria. Senza voler essere retorici, sembra davvero che i suoi articoli e i suoi documenti siano stati scritti in questi giorni. Anche da questo si vede la grandezza di un pensatore davvero unico, un vero federalista: la grandezza di un uomo davvero libero.

 

Roberto Marraccini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

God bless America!

Trump Presidente degli Stati Uniti. Finisce un’era

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Confesso, lo choc è stato forte. Affidandomi a quanto riportavano – ormai da mesi – i media e i sondaggisti americani, davo per scontata – sbagliando – l’elezione alla Casa Bianca di Hillary Clinton. E invece, come ormai capita sempre più spesso (Brexit docet), le analisi demoscopiche condotte sugli elettori americani hanno sbagliato completamente.

Mentre sto scrivendo queste righe, Donald J. Trump, quarantacinquesimo Presidente eletto degli Stati Uniti d’America, ha appena terminato di parlare ai suoi sostenitori a Manhattan. Un discorso semplice, sobrio, che lascia intravedere – come se ce ne fosse bisogno – come egli sarà il Presidente di tutti gli americani. Ma soprattutto, altro pensiero che ho in testa ormai da un po’ di tempo, che si comporterà, negli affari diplomatici e nei rapporti con gli altri Paesi nel mondo, in modo rispettoso e non oltraggioso (come da più parti si è sostenuto) delle istituzioni internazionali e nei vari scenari geopolitici in cui gli Stati Uniti sono presenti. Il Trump aggressivo e spregiudicato visto in campagna elettorale non lo vedremo – presumibilmente – più.

Seppur è vero che differenze con la Clinton esistono, soprattutto per quanto concerne l’interpretazione della politica estera degli Stati Uniti (isolazionismo contro internazionalismo, rapporti maggiormente distensivi e proficui con la Russia di Putin, ecc. ) è anche vero – e non bisogna tralasciarlo come argomento – che lo slogan della campagna di Trump è stato “Make America great again”. Fare di nuovo grande l’America, che significa “grande” non solo per gli americani negli Stati Uniti, ma anche per il brand USA sulla scena internazionale. Ecco perché Trump ha parlato ed è intervenuto più volte, durante la sua lunga campagna elettorale, sulla questione NATO. Che egli non vuole nella maniera più assoluta cancellare o indebolire, ma solo far diventare più equilibrata nella sua struttura di bilancio (gli apporti dei singoli membri):

“L’Alleanza Atlantica è ormai obsoleta. È stata creata moltissimi anni fa e la situazione internazionale è oggi notevolmente diversa. Spendiamo troppo e non possiamo rischiare di combattere la terza guerra mondiale per proteggere nazioni che non pagano” (Trump: «Can’t Go Into World War III for NATO Allies Who Don’t Pay», New- smax, 26/7/2016).

È facile invocare l’intervento americano e della Nato, contribuendo però in piccola parte al suo bilancio!

Comunque, tralasciando i discorsi sulle strategie geopolitiche e la politica internazionale – argomenti che interessano poco o nulla all’America profonda (quella che in massa ha votato per Trump) – è con la semplicità di linguaggio e la manifestazione sincera della propria personalità che egli ha conquistato la Casa Bianca. Perché prima di tutto ha conquistato – volenti o nolenti, piaccia o no – il cuore della gente. Ha parlato direttamente a loro, ai loro disagi, alle loro inquietudini, facendosene interprete.

E questo è avvenuto nonostante la consapevolezza della scarsa popolarità e del vuoto di appeal di Hillary Clinton. Tutta la vulgata benpensate del politicamente corretto, sconcertata dalla comunicazione diretta di Trump e dal suo parlare al popolo in maniera diretta (una modalità rozza per certuni), insisteva nell’indicare nel magnate newyorchese un pericolo per la democrazia e la stabilità degli equilibri mondiali. Occorreva allora votare – nonostante la scarsa capacità performante della Clinton – nella donna che avrebbe salvato i valori americani dalla rovina. Ma perché, crediamo davvero che oggi il mondo finisca? Crediamo veramente che con Trump alla stanza ovale il mondo si stia avviando verso una catastrofe inenarrabile? Non credo. 

All’America non succederà nulla. Così come al mondo. Gli Stati Uniti continueranno – legittimamente – a tutelare e fare i loro interessi nel mondo, come compete ad una grande nazione. Molto, anzi, enormemente dipenderà dalla squadra di Governo che Trump costruirà.

Spero che, in politica estera, quanto fatto da Obama (quasi nulla) venga il prima possibile resettato. Soprattutto in Medio Oriente e in Siria, dove l’Occidente e gli USA in particolar modo sono intervenuti con enorme ritardo, lasciando che si propagasse l’ISIS. Ecco perché ritengo che questa nuova amministrazione americana non possa fare peggio di quanto fatto da Obama.

Gli americani, in piena coscienza, hanno votato – democraticamente – non per il meno peggio. Si tratta, molto semplicemente, di una questione di puro e semplice calcolo politico. Gli americani si sono chiesti: chi dei due candidati mi rappresenta di più? Quale dei due, al netto degli scandali e dei problemi di ognuno, incarna il vero spirito americano e soprattutto potrà fare qualcosa per me? La risposta è stata chiara: Donald J. Trump.

Gli americani, quelli della classe media e che si stanno progressivamente impoverendo, e anche quelli dei ceti meno abbienti (i poveri, ricordiamolo, negli USA sono 46 milioni di persone) hanno dato la loro fiducia a chi ha meglio interpretato – emotivamente – i proprio bisogni e disagi personali di ogni giorno. Hanno dato un calcio diretto in faccia al sistema di potere, all’establishment politico che ha generato la crisi economica del 2008 – di cui stiamo ancora pagando le dirette conseguenze – e che ha impoverito tanti americani.

L’8 novembre 2016 verrà ricordato a lungo. Il popolo si è ribellato al potere.

Per questo dico, come faccio ogni anno l’11 settembre, God bless America!

 

Roberto Marraccini